Gli ingegneri clinici si incontrano (sul web) per discutere delle diverse strategie adottate nei confronti della pandemia. E per trovare soluzioni perché non ci si faccia più trovare impreparati
Posti letto da allestire. Tamponi, reagenti, ventilatori da reperire. Personale da formare. Da quando è cominciata l’emergenza Covid-19 è stata una continua corsa contro il tempo. Da una parte un virus estremamente subdolo e contagioso, dall’altra, a inseguire, medici, infermieri, ricercatori, scienziati, con la speranza di accorciare le distanze nel minor tempo possibile. Oggi sappiamo che, almeno per quanto riguarda le tecnologie sanitarie, c’è chi ha corso più velocemente di noi. È quanto emerso nell’incontro (tenutosi online, per ovvie ragioni) Covid-19: The perspectives of clinical engineers across Europe, un webinar che ha coinvolto i rappresentanti delle associazioni di ingegneri clinici di cinque paesi europei (Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Germania): gli esperti hanno condiviso informazioni, esperienze e soluzioni adottate nella prima fase della pandemia per individuare e confrontare gli approcci seguiti e le criticità riscontrate durante l’emergenza.
Un’Europa a due velocità
“Il webinar”, racconta a Repubblica Umberto Nocco, vice presidente dell’Associazione Italiana degli Ingegneri Clinici (Aiic), “è stato organizzato con l’intento di scambiare informazioni con i colleghi di nazioni che condividono con l’Italia lo stesso framework legislativo e che hanno più o meno vissuto la pandemia nello stesso modo”. Nonostante ci fosse qualche avvisaglia, Covid-19 ha colto tutti alla sprovvista, continua Nocco, e ha posto le stesse esigenze per tutti, in primo luogo la necessità di agire il più velocemente possibile e di aumentare in tutta fretta la disponibilità di posti letto in terapia intensiva. “In questo senso”, dice l’esperto, “i rappresentanti dei paesi che hanno partecipato all’incontro hanno evidenziato che ovunque sono stati messi in campo degli sforzi senza precedenti”. L’Italia, per esempio, ha aumentato di circa il 50% i posti letto disponibili (prima dell’emergenza erano circa 5500, ovvero 8 ogni 100mila abitanti: oggi sono più o meno 13 ogni 100mila abitanti. L’incremento non è stato lo stesso in tutte le regioni); la Spagna li ha raddoppiati; la Francia è passata da 5400 a 10mila posti letto circa. La Germania è il paese per cui si registra l’incremento minore, pari a circa il 20%; va considerato, però, che i tedeschi già prima dell’emergenza potevano contare su circa 28mila posti letto in terapia intensiva, pari a 33 per 100mila abitanti. Oggi sono 33mila, un dato di gran lunga superiore a tutte le altre nazioni europee. “La reazione negli altri Paesi, Germania esclusa”, spiega Nocco, “è stata molto simile a quella italiana, specialmente se si guarda a quello che è successo al di fuori della Lombardia, la regione che è stata colpita per prima e più duramente dal virus”.
Cosa vuol dire allestire una terapia intensiva
Piccolo excursus. Non si è fatto altro che parlare di aumento dei posti in terapia intensiva. Poco invece si è detto di cosa comporti realmente un’operazione del genere. Si tratta, ci dice Nocco, di uno sforzo molto rilevante: “Allestire un posto in terapia intensiva è tutt’altro che semplice. Bisogna reperire la strumentazione, organizzare la postazione, controllare che tutti i macchinari siano a norma e funzionanti, mettere insieme e formare il personale. Una terapia intensiva non è fatta solo di ventilatori: sono necessari monitor, letti, materiale di consumo. In Italia non è stato semplicissimo: non abbiamo avuto molte possibilità nella scelta delle attrezzature – in molti casi ci siamo dovuti adattare a quello che c’era sul mercato – e questo ha comportato qualche ritardo nella formazione. Dal punto di vista del lavoro non è tanto diverso da quello che facciamo sempre; stavolta, però, è stato molto più concentrato in termini di numeri e tempi”. Tra le altre criticità emerse nel corso del webinar – e condivise dalla maggior parte dei paesi europei – ci sono stati anche ritardi nelle consegne del materiale e problemi con materiali di consumo, ad esempio caschi CPAP, finiti presto fuori stock e quindi introvabili.
Poca coordinazione con il centro
Direttamente collegato al punto precedente è un altro elemento comune a tutti i paesi coinvolti nel webinar, ossia le difficoltà nella collaborazione tra periferia e strutture centrali. In particolare, dice Nocco, “un elemento di criticità è legato al procurement centralizzato”, ossia al fatto che l’approvvigionamento di materiali, attrezzature e tecnologie debba necessariamente passare da una struttura centrale. “Un’organizzazione di questo tipo non esclude i ritardi nell’approvvigionamento, anzi in alcuni casi li amplifica; riduce il numero di fornitori disponibili, mentre in una fase come questa sarebbe meglio avere una pluralità di interlocutori; non tiene conto di specifiche preferenze ed esigenze locali”.
Cosa fare?
Guardando al futuro, per reagire meglio a nuove emergenze sanitarie, gli ingegneri clinici europei hanno formulato il concetto di “ospedale elastico”, ossia “in grado di modificare facilmente la propria struttura rispetto alle specifiche esigenze del momento, adattandosi semplicemente e in modo reversibile alla variazione della domanda”. In altri termini, un ospedale intelligente dovrebbe essere progettato, per esempio, in modo tale da poter supportare un ampliamento rapido dei posti letto, un “riadattamento” degli spazi per isolare i pazienti contagiosi dai restanti, e così via. E ancora: “Bisognerebbe dotarci”, conclude Nocco, “di dei ‘polmoni di tecnologia’, scorte di macchinari che possano essere messi in funzione con semplicità e rapidità in caso di emergenze. Ancora meglio se non centralizzati, in modo che la manutenzione sia più efficiente e meno onerosa”.
Fonte: la Repubblica